19 Mar 2012
Parlando di Lights Out nel gennaio 2011, il presidente di FX John Landgraf aveva dichiarato che la critica può aiutare una serie a guadagnare qualche spettatore, ma non può trasformare un flop in un successo, neanche quando è compatta e sinceramente entusiasta. A conti fatti, però, i critici possono a volte riuscire a evitare la cancellazione di una serie, perché una stazione televisiva sa che finché si sforzerà di mantenere in onda una serie adorata dalla critica continuerà a ricevere elogi per questa sua scelta; al contrario, le critiche che riceverebbe in caso di cancellazione sarebbero senz’altro più dannose delle valanghe di mail di protesta dei fan delusi e arrabbiati. Due serie che hanno avuto vita lunga nonostante i bassi ascolti anche e soprattutto perché coccolate dalla critica sono state la soap a sfondo sportivo Friday Night Lights e il poliziesco Homicide.
Creato dall’ex critico cinematografico Paul Attanasio e prodotto da Tom Fontana e Barry Levinson, Homicide è stato uno dei primi – e a dir la verità pochi – tentativi di proporre in tv un poliziesco diverso dallo standard non per quanto riguarda l’ambiente poliziesco e l’ambientazione geografica, ma proprio per il modo in cui le storie erano costruite dal punto di vista televisivo. Basata sul libro Homicide: A Year on the Killing Street del giornalista David Simon (creatore nel 2002 di The Wire), la serie aveva una coralità da far invidia all’87° distretto di Ed McBain, presentava più di un caso criminale nella stessa puntata, girava intorno a poliziotti disillusi e a casi tutt’altro che glamour e a volte ispirati alla fatti reali, e aveva uno stile di regia e di montaggio cui gli spettatori del 1993 non erano per nulla abituati. E infatti il pubblico rispose tiepidamente, tanto che per la seconda stagione la NBC commissionò appena quattro episodi chiedendo alcuni cambiamenti nella struttura della serie. Così, alcuni attori furono sostituiti loro malgrado (Jon Polito in primis) e col tempo le puntate iniziarono a essere costruite attorno a un solo caso e ad avere una regia molto più classica con l’inserimento di videoclip musicali e l’abbandono totale del jump cutting che aveva invece caratterizzato le prime tre stagioni.
Nonostante tutti i compromessi cui i produttori sono stati costretti dalla rete, però, la coralità dell’insieme è sempre rimasta una freccia all’arco della serie, e anzi è andata aumentando nelle ultime stagioni. Inoltre i personaggi sono sempre apparsi clamorosamente ben costruiti e sviluppati (fa eccezione Mike Kellerman, che risente di una svolta nell’intreccio principale davvero mal gestita) e anche se i casi su cui indagano si fanno via via sempre più cervellotici e di conseguenza meno realistici, loro li affrontano sempre come un lavoro – pesante e a volte emotivamente forte, ma pur sempre “solo” un lavoro, non una ragione di vita. E’ solo nella quinta stagione, poi, che le storie cominciano a girare maggiormente attorno alla vita privata dei detective (e forse non a caso è la miglior stagione della serie), mentre è solo nell’ultima che l’accento si sposta sui loro sentimenti, con la nascita di attrazioni reciproche all’interno della squadra.
Questa solidità dei personaggi ha permesso agli attori di brillare probabilmente ben oltre le attese, in particolare lo straordinario Andre Braugher che vinse un Emmy, un Richard Belzer talmente convincente nel ruolo del sardonico detective Munch da vederlo trasferito sul set di Law & Order: Special Victim Unit alla chiusura della serie e un Kyle Secor perfetto in un ruolo sfaccettato e a tratti inedito nella tv statunitense. Ma gli spettatori che hanno seguito l’intera serie hanno sicuramente apprezzato anche la Melissa Leo che ha poi vinto l’Oscar per The Fighter e l’ex giocatore di football Clark Johnson nell’unico ruolo degno di nota della sua carriera attoriale prima di passare alla regia (di S.W.A.T., tra gli altri), e non può non essersi affezionato al tenente italo-americano di colore di Yaphet Kotto.
Come detto il pubblico ha sempre risposto piuttosto freddamente, nonostante tutti gli aggiustamenti in corsa, preferendogli il concorrente della ABC New York Police Department, che molti hanno paragonato proprio a Homicide ma che è in realtà debitore soprattutto a Hill Street giorno e notte, che non a caso era anch’esso una creatura di Steven Bochco. Homicide, in realtà, aveva anche il pregio di essere ambientato a Baltimora, città affascinante ma quasi mai sfruttata da cinema e tv. Gli autori, invece, hanno saputo immergere perfettamente la storia nell’ambiente cittadino e hanno avuto coraggio di non farsi imbrigliare dalla convenzioni: Baltimora è una città prevalentemente nera, e non solo il cast è stato in larga parte afro-americano, ma in più di un’occasione la serie ha parlato di razzismo, sia dei bianchi nei confronti dei neri che dei neri verso i bianchi. Un’altra convenzione cui Fontana e Levinson non si sono piegati è quella del Bene che trionfa: sono tanti i casi che restano irrisolti, sin dalla prima puntata, e in alcune occasione ci viene addirittura mostrato il colpevole a piede libero. Di più: quante serie tv hanno avuto il coraggio di mostrare un poliziotto sparare alla schiena di un criminale in fuga?
Alla fine, però, la NBC annunciò che la settima stagione sarebbe stata l’ultima della serie. Saperlo in anticipo ha permesso agli autori di giocare con i loro personaggi (la prima puntata dell’ultima stagione inizia con un dialogo tra gli unici tre detective presenti per tutta la serie) e soprattutto di tirare le fila di molti discorsi senza lasciarne nessuno in sospeso, a parte quelli lasciati volutamente irrisolti, arrivando prevedibilmente a chiudere l’ultima puntata nello stesso identico modo in cui si apre la prima. In questo senso, il film-tv che ha chiuso ufficialmente la serie un anno dopo è assolutamente inutile, e anzi dà alla serie un finale davvero orrendo al posto di quello duro e secco della 7a stagione. Ma nonostante lo scivolone finale, Homicide merita di essere ricordato come uno dei migliori polizieschi della storia della televisione.
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