I tre re di una serie morta

I tre re di una serie morta

3 Mag 2011

Le storie erano già note in partenza. Quella maiuscola, della vera Banda della Magliana, e quella romanzata di Libano, Freddo e Dandi, le tre schegge impazzite al centro del romanzo di Giancarlo De Cataldo e del film del 2005. Ma perfino per un progetto sulla carta più audace, Sky Italia e Cattleya preferiscono puntare su un titolo già forte, e così nasce la prima stagione della serie diretta da Sollima Jr. Assodato il significato commerciale dell’operazione, compiuta a soli tre anni di distanza dal precedente adattamento cinematografico, rimane da definirne l’effettiva riuscita artistica. Il film di Michele Placido, per quanto riuscito, aveva un occhio troppo glamour su una vicenda così brutale e soprattutto accusava la mole di vent’anni di storia criminale, compressi a fatica in una durata cinematografica sopportabile. Appare evidente fin dai primi episodi come regista e sceneggiatori abbiano deciso di puntare tutto sullo scavalcamento di questi due limiti, e a conti fatti questa impostazione ha pagato in termini di originalità.

In un panorama di fiction nazionale in cui il primo obiettivo è quello di rassicurare e normalizzare anche i peggiori orrori e le devianze più eversive, Romanzo criminale va a occupare il posto vacante della serie dark e alternativa, negando con forza tutti i canoni estetici della produzione media italiana e puntando anzi a un livello da epica internazionale. La ferocia sempre crescente delle azioni dei tre protagonisti e dei loro sottoposti viene almeno inizialmente giustificata dal loro lento e incerto ingresso nel mondo della delinquenza che conta, quello della malavita organizzata, dove solo il più forte e il più spietato può sopravvivere, e allora i nostri decidono di partire lasciandosi dietro qualsiasi freno. La continua ascesa della banda al successo e soprattutto al rispetto occupa tutto l’arco della prima serie, e regista e sceneggiatori la gestiscono complessivamente bene, puntando quasi alla creazione di casi di puntata veri e propri e prendendosi il tempo di esplorare liberamente, anche se in modo prevedibile, quelli che sono almeno i tratti essenziali di Libano, Freddo e Dandi. Sul primo di essi, in particolare, ci si sofferma più degli altri, per due ottime ragioni: una prova d’attore (Francesco Montanari) superiore a quelle dei suoi colleghi e una scadenza prefissata. Rimanendo fedele al libro di De Cataldo, il breve percorso della prima serie da 12 episodi segue un andamento fin troppo lineare, che porta all’evento cruciale della storia, ovvero la morte del Libanese. L’importanza data a questo personaggio rappresenta la scelta più felice del teleracconto, in quanto la sua morte, anche se prevedibile, va a lasciare un vuoto devastante nello spettatore, insinuando la netta sensazione che nulla sarà più come prima.
Ma, paradossalmente, dopo la scomparsa del personaggio più riuscito, le cose migliorano: a una prima stagione in cui si punta anche troppo facilmente al ricalco della gangster story statunitense, seppure con una decisa localizzazione regionale e storicistica, ne segue una seconda del tutto diversa, che spinge all’estremo le contraddizioni della serie e la rende finalmente interessante come oggetto di studio. I personaggi si ritrovano di colpo messi di nuovo in discussione, feriti e insicuri, ma a un livello della malavita in cui non se lo possono permettere, pena l’essere soppiantati se non eliminati fisicamente. Gli obiettivi diventano l’indagine sui responsabili dell’omicidio del Libanese e prima ancora la pura sopravvivenza, la nuova regola è il vivere alla giornata, e questo riesce a dare un senso a dei personaggi di medio piano, criminali senza pietà e principianti ancora in formazione allo stesso tempo. Il tutto è coperto da un’ottima atmosfera crepuscolare, che sposa il declino della banda, e da un approccio narrativo migliore, più indiretto e volto alla scoperta dell’interiorità di personaggi in precedenza troppo tipizzati. Una scoperta quasi perfettamente graduale, fondata episodio dopo episodio su piccoli particolari, frasi non dette, errori mai del tutto grossolani, che portano lievemente alla luce l’umanità di personaggi anche poco esplorati nella prima serie, come Scialoja, Patrizia e i meritevoli componenti secondari della banda, Bufalo e Scrocchiazeppi su tutti.
La seconda serie però mostra anche un grosso limite che i cultori della serialità statunitense potrebbero trovare frustrante. Rispetto alla prima la trama del romanzo prevale sulla struttura seriale stessa, e le storie dei singoli episodi talvolta mancano di forza e di identità rispetto a quello che è il più grande percorso verso l’autodistruzione della banda. Questa purtroppo è la classica abitudine, comune a tanta scrittura italiana, di concepire una serie come un lunghissimo film diviso in parti, finendo per girare troppo di frequente intorno agli stessi temi e conflitti. Ne consegue che alcuni passaggi chiave della storia finiscono per apparire ovvi, come il progressivo mutamento del personaggio di Dandi, vero cuore della seconda stagione, o addirittura ripetitivi, come le morti dei componenti della banda – eventi simili che si tolgono importanza a vicenda. Rimangono comunque dei momenti memorabili, come il furto della bara di Libano da parte del Bufalo, o la lettura delle sentenze al processo contro la banda, sequenze in cui finalmente si giunge al respiro epico voluto.

Un tentativo che in Italia si può anche considerare audace, seppure in più di un momento i realizzatori siano rimasti con i piedi piantati per terra e abbiano compiuto scelte anche furbe, per compiacimento o prudenza. Un progetto partito con il vento a favore verso un futuro già scritto in partenza, come un malato terminale che ha visto la fine dopo appena due annate e il cui segno esemplare nella produzione di serialità italiana è ancora tutto da dimostrare. Dovremo aspettare, infatti, di vedere se produttori ed emittenti nei prossimi anni sapranno darci ancora qualcosa che si allontani almeno nell’aspetto dai canoni più comuni della produzione televisiva italiana. Magari facendo quel passo in più che è necessario per cominciare a raccontare davvero delle vite anziché dei grandi romanzoni.


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11 commenti

  1. Alessandro /

    Si sa, per caso, i costi e i guadagni di questa produzione? Qualche tempo fa avevo letto che per una stagione di Un posto al sole venivano investiti intorno ai 40 milioni di euro.
    Sarebbe interessante fare un confronto.

    • Be’, considera che una stagione di “Un posto al sole” ha circa 200 puntate, anche se di mezz’ora. Farebbero circa 180.000 euro a puntata. Credo di poter dire che come costo per singola puntata “Romanzo Criminale” sia costato di più, però da noi non c’è l’abitudine di dichiarare ufficialmente i costi, per cui dobbiamo sempre rimanere nel dubbio. Ricordo che De Cataldo all’epoca del debutto in tv aveva definito il budget “generoso”, e molto probabilmente la seconda stagione è costata più della prima, ma appunto di cifre ufficiali non ne abbiamo. Il film era costato all’incirca 8 milioni di euro (più altrettanti per la sontuosa promozione, se all’epoca avevo capito bene), e secondo me la serie non è costata molto meno, per ognuna delle due stagioni. Poi è stata venduta prima a Mediaset e poi in Francia, ed è uscita anche in DVD, quindi di sicuro i produttori non ci hanno perso dei soldi.

  2. Alessandro /

    Proprio perchè i produttori non ci hanno perso, perchè non puntare più spesso su serie di quaità da vendere all’estero?
    Un po’ anche come Game of thrones della HBO: 2 milioni e mezzo solo dalle vendite dei diritti tv. Invece che dirottarli in duecento inutili puntate di una serie tv che (parlo senza sapere alcun dato, felice di essere smentito) non si vede nessuno potrebbero farci delle ottime serie, anche di poche puntate, sulla falsa riga della BBC.
    Ma ci credo molto poco.

  3. Eh, ma questo è un discorso complicato. Sky ha investito tanto, ma ha investito su un prodotto già di nome (come aveva già fatto, su scala minore, con “Quo vadis baby”): senza un titolo forte, che il pubblico già conosceva, dubito avrebbero fatto un investimento simile. Ma non è neppure questione di budget, è proprio questione di (mancanza di) coraggio produttivo: meglio navigare in acque conosciute che rischiare il posto promuovendo un prodotto fuori dagli schemi che poi guardano in pochi. È una cosa comune anche al nostro cinema, standardizzato e ripetitivo, privo di coraggio, ma qui l’impressione è anche che non ci siano poi così tanti autori con in testa idee davvero interessanti… Rispetto agli Stati Uniti direi che siamo nella prima metà degli anni ’80, prima della “rivoluzione” HBO, quando un telefilm di successo veniva clonato fino alla nausea e non si poteva fare nulla di particolare (anche per motivi di censura, però).

    “Un posto al sole”, comunque, fa degli ascolti più che discreti ancora oggi dopo 15 anni (!) di trasmissione. Le voci di chiusura che girano da un paio di stagioni indicano che il margine di guadagno dei produttori si sta assottigliando, ma se proseguono è perché la serie è ancora in attivo. Considera anche che le spese sono dilazionate con la durata delle riprese, mentre nel caso di RC sono da pagare quasi tutto quasi subito. Che poi la gente non guardi veramente UPAL è probabile, lasciando semmai la tv accesa mentre fanno altro, ma le soap vere e proprie sono studiate apposta per questo tipo di spettatore.

  4. Tony Mac /

    Per me è la migliore serie tv italiana mai fatta, anzi è grande cinema! Vero Alberto?

    • A dir la verità è una serie che ho amato molto poco, sia perché sulla Banda della Magliana avevo già letto e visto molto sia perché non m’è piaciuta la regia che scimmiotta le serie americane (avrei preferito si rifacesse ai nostri poliziotteschi, vista l’ambientazione, ma non si poteva chiedere a Sollima di fare una cosa simile). Però è indubbio che sia una serie di un’altra categoria, rispetto a quelle prodotte normalmente dalla nostra tv, sia come impegno produttivo che come coraggio narrativo.

  5. Forse farei prima a dirti cosa mi è piaciuto… Comunque diciamo che ho trovato insopportabile l’insistita ricerca del patetismo e della commozione in ogni momento, gli attori sono uno più scarso dell’altro e ci sono alcuni dialoghi da far accapponare la pelle.

  6. WarezSan /

    Devo esser stato ipnotizzato dalla musichetta di apertura…

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