L’impero del crimine di Martin Scorsese

L’impero del crimine di Martin Scorsese

18 Gen 2011

Uno dei Leitmotiv della riflessione critica e degli studi teorici sull’audiovisivo più recenti vuole che la serialità televisiva abbia affiancato, a volte superato, il cinema: nel linguaggio, nella tecnica, nel valore socio-culturale di lettura del presente, ma anche in quello di reinvenzione dei generi filmici. Gli esempi sono molti (tra i quali sarebbe il caso evidenziare l’action in tempo reale 24 e il dramma presidenziale), ma quelli che vengono costantemente menzionati sono i prodotti HBO, diventata simbolo di qualità televisiva dopo aver realizzato gemme assolute come I Soprano, Oz, Deadwood e soprattutto le due miniserie belliche firmate da Steven Spielberg: Band of Brothers (sulla Seconda Guerra Mondiale in Europa) e The Pacific (sul fronte orientale del conflitto) coi quali Re Mida Steven ha superato in profondità, spettacolo, complessità di temi sviluppi e linguaggio tanto Salvate il soldato Ryan quanto forse Lettere da Iwo Jima di Eastwood.
Altro elemento importante nella riflessione sui rapporti tra cinema e tv contemporanei è la presenza di nomi di spicco dell’industria cinematografica nelle produzioni televisive. Spielberg segue la strada del piccolo schermo da anni, così come tanti attori di spicco hanno fatto apparizioni più o meno durate in serie e miniserie televisive, e questa tendenza sembra aver raggiunto il culmine con Martin Scorsese, che ha prodotto – dirigendone il pilot – uno dei prodotti più ambiziosi degli ultimi anni, Boardwalk Empire, prodotto appunto dalla HBO.

L’impianto narrativo sembra uno di quei ritratti d’epoca criminale che tanto titillano la fantasia di Scorsese: nell’Atlantic City del proibizionismo Nucky Thompson, amico del sindaco e traffichino politico (ispirato a un personaggio reale), gestisce una rete di contrabbando legandosi pericolosamente con la mafia. Affresco storico nero e sontuoso (solo il pilot è costato quasi 20 milioni di dollari), creato e scritto da Terence Winter – produttore e autore di molti episodi dei Soprano – è una saga criminale e al contempo un quadro che guarda alla tradizione dello sceneggiato europeo, soprattutto italiano e inglese. Quello che balza agli occhi dello spettatore comune è una confezione e una ricchezza di messinscena non comune a una serie televisiva, neanche alle miniserie storiche come Radici. L’accurata opera di ricostruzione storica (seppure in parte sostituita da scenografie e ritocchi digitali), la ricchezza della colonna sonora, la precisione del montaggio ma soprattutto l’oscuro splendore di una fotografia che gioca tra le luci esplosive degli anni ruggenti fatti di donne, vizio e spettacolo (spesso concentrati sul lungomare – boardwalk – dove si svolge parte della vicenda) e la cupa e mesta oscurità dei bassifondi, nei quali la Grande Depressione annuncia il suo arrivo.

Come ogni vero formalista, Scorsese è convinto che la forma sia il contenuto e che solo attraverso la regia e la costruzione dell’immagine può passare il senso vero e profondo di un racconto, contraddicendo una generale regola televisiva che conosce più di un’eccezione. E allora, assieme agli altri registi coinvolti (tra cui Timothy Van Patten e l’Allen Coulter di Hollywoodland), si costruisce una sorta di monumentale macchina televisiva che fa dell’andamento, dei cambi di ritmo, dei toni cangianti, dell’uso di una macchina da presa mobilissima (straordinaria nel quinto episodio, nelle scene durante la cena ufficiale) le redini con le quali non solo gestire ma quasi creare la progressione narrativa. Che, come in ogni produzione HBO (vedasi soprattutto il grandioso The Wire), è cauta, si prende tempo per presentare meticolosamente situazioni, personaggi, fatti quasi compiacendosi dell’attesa per poi crescere coi minuti e gli episodi in modo appassionante, sfoderando compattezza di narrazione e caratteri unici come quelli femminili e quello incredibile di Chalky White, dall’inquietante viso sfregiato di Michael K. Williams.
E poi c’è Steve Buscemi, straordinario Nucky, abilissimo tanto a gigioneggiare quanto a divenire profondo o cattivo, interprete memorabile di un personaggio che pare quasi la metafora della politica, oggi come 90 anni fa: uno spettacolo fatti di doppi giochi e doppi visi, di sorrisi e morte, di splendori e miserie. Luci e ombre, come quelle che innervano una serie che ha l’obiettivo di raccontare la storia dell’America e fare la storia della tv.


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