7 Mag 2012
Un arsenale di strumenti etnici (su tutti gli orientali duduk, zurna e bansuri), percussioni tradizionali giapponesi, percussioni gamelan, sinth vellutati e voci eteree su testi in latino e gaelico, contaminazioni pop (che diventeranno hard rock dopo la prima serie), suite per piccola orchestra di archi: tutti questi ingredienti così diversi sono entrati a far parte dell’imprinting musicale di Battlestar Galactica. Un vero e proprio mosaico sonoro inscindibile con le immagini della poderosa serie statunitense, nata nel 1978 e recuperata nel 2003 fino a durare 4 stagioni e 75 episodi complessivi tra il 2004 e il 2009 (in Italia trasmessa da Rai 4).
Sci-fi spaziale dalla trama fantasy e i contenuti thriller, Battlestar Galactica segna molte novità tecniche: riprese (che sembrano sempre un piano sequenza e danno un effetto di live action), montaggio e, appunto, colonna sonora. Come ammesso dai produttori, l’intenzione è stata quella di accantonare lo score magniloquente e tradizionalmente ricco di ottoni di Stu Phillips per battere nuove strade. Può capitare, così, nel serial di ascoltare un duduk (antichissimo flauto originario dell’Armenia) su una scena di “guerre stellari”. Espediente insolito ma suggestivo che, se da una parte mette in crisi un certo tipo di commento che potremmo definire alla John Williams – consolidato ma forse ormai incapace di suscitare nuovi stimoli a forza di “copia e incolla” di serie B – dall’altra apre nuovi e interessantissimi scenari psicoacustici. Tutta l’abbondante strumentazione esotica trapiantata, decontestualizzata e ricontestualizzata, crea cioè degli indubbi effetti emozionali sul girato.
Ma c’è anche un aspetto tecnico. In genere, infatti, le musiche roboanti e pienamente sinfoniche – oltre a impegnare budget preziosi non sempre disponibili – rendono poco nel piccolo schermo e il timbro vellutato di un duduk, di un erhu o di un flauto celtico, possono incredibilmente suscitare lo spettro sonoro con nuovi colori e impatti emotivi a volte straordinari. Criteri estetici o limitazioni congiunturali, sta di fatto che il lavoro del giovanissimo Bear McCreary ha incassato l’approvazione del pubblico. Ed è questo che conta. L’imprinting musicale poggia su due punti fermi strettamente connessi: l’assenza di un vero e proprio tema leitmotivico pienamente strutturato a favore dell’iconicità di timbri esotici imprevedibili, anche percussivi e di diffuse, rarefatte ambientazioni che siano elettroniche od orchestrali; la compresenza di una miriade di brevi temi, a volte una mera successione di note comunque evocative (in questo senso l’omissione del bellissimo tema originale scritto da Stu Phillips e Glen A. Larson, riproposto in maniera eccezionale nella seconda stagione e accennato nella quarta, riconferma la scelta di non abbracciare grandezze sinfoniche ma di cambiare radicalmente abito al commento sonoro, forse anche per evitare un revival troppo legato al passato).
Bear McCreary: Battlestar Galactica – Season 1 (2005)
In questo primo album edito da La-La Land Records, il ventiquattrenne Bear McCreary (sebbene in compagnia di Richard Gibbs, che aveva siglato la musica della miniserie del 2003 ed è stato anche autore di musica addizionale per questa prima stagione), ha dato il la decisivo alla OST di tutta la saga. L’idea portante ha in sé qualcosa di giacchiniano. Esaltare i momenti di escalation emotiva con dei crescendo finali che lascino di stucco. Se il Giacchino di Lost ci riusciva con archi e ottoni, dissonanti o atonali che fossero, McCreary segue la strada delle vibrazioni primordiali. Ovvero: percussioni senza tregua, tempi per tutti i gusti, pari, “zoppi” e sincopati, con progressioni di decibel esponenziali (“Main Title (US Version)”, “The Thousandth Landing”, “Helo in the Warehouse”, “Starbuck on the Red Moon”, “Battle on the Asteroid”, “Re-Cap”, solo per fare qualche esempio). La varietà di questi brani percussivi è tale che si può parlare di un vero arrangiamento nell’arrangiamento, quasi di un concerto di tamburi che riesce a valorizzare le specificità timbriche degli strumenti evitando l’impressione di un vuoto effetto fracassone. All’espediente percussivo fa da contraltare quello minimalistico. I risultati di questo contrasto esasperato sono stupefacenti nei titoli di apertura della versione britannica (“Main Title (UK Version)”) dove l’epilogo tambureggiante è preceduto da una intimistica performance vocale accompagnata da morbidi pad elettronici e ottoni. Questo forse è l’album in cui tale dialettica raggiunge la sintesi migliore e l’immaginario sismografo dei decibel oscilla come un pendolo da un estremo e l’altro: dalle serrate percussioni militari all’eterea purezza delle voci sommesse e del duduk (“Forgiven”). Degno di menzione è il tema di quattro note (“Two Boomers”) col quale McCreary è riuscito a condensare tutto l’immaginario fatalistico della serie, nella quale circa 50 mila uomini vagano nello spazio alla ricerca del pianeta Terra, diventata una sorta di mito irraggiungibile.
Bear McCreary: Battlestar Galactica- Season 2 (2006)
Il secondo round vede McCreary impegnato principalmente su due fronti, che nel precedente volume erano invece piuttosto marginali. Da una parte il giovane protetto di Elmer Bernstein ha calato finalmente gli assi, ovvero ha fatto ascoltare di che tempra sia fatta la sua scrittura per orchestra, dall’altra si è lanciato in uno sfrenato sincretismo tra rock, elettronica ed etnica (“Baltar’s Dream”, “Something Dark is Coming”). L’autore ha diretto almeno sei brani per piccola orchestra, che hanno come filo conduttore un diafano uso delle armonie dissonanti (“Escape from the Farm”), e schemi iterativi in genere mutuati da forme classiche codificate come la passacaglia. Degno di menzione è il brano intitolato “Allegro”, che ripropone e sviluppa “Passacaglia” della prima stagione. McCreary inoltre recupera lo scheletrico tema di 4 note associato a Gaius, che diventa quasi irriconoscibile per l’intricata trama degli archi. L’effetto di “Allegro” (e anche delle simili “A Promise to Return”, “Epiphanies”) è quello di un compito svolto a puntino, anche se è innegabile un’ombra giacchiniana su tutto l’impianto timbrico e sintattico. Del resto la critica statunitense non ha tardato a considerare McCreary il nuovo Michael Giacchino del piccolo schermo, un riconoscimento impegnativo, bisognoso comunque delle necessarie conferme (nel frattempo il giovane compositore nato in Florida, tanto per volare “basso”, sul sito ufficiale preferisce rifarsi a tre mostri sacri come John Williams, Jerry Goldsmith e Bernard Herrmann!). Per scovare il carattere al di là della leziosità tecnica dobbiamo invece citare due gioiellini melodici: “Roslin and Adama” e “Reuniting the Fleet”. Il primo, su tempo ternario, è un sognante canto dei violini e del pianoforte; il secondo è il vero tema militaresco della saga, composto per la prima stagione (“A Good Lighter”) e portato alle ovvie grandezze epiche da un coro monofonico, percussioni, flauti e cornamuse celtiche. Da ricordare inoltre che “Worthy of Survival” presenta un’interessante intersezione degli archi con l’immancabile duduk, mentre la purtroppo breve “Martial Law” contiene forse uno dei temi più brillanti di tutta la saga. Sul fronte percussivo si segnala la marziale “Prelude to War”.
Bear McCreary: Battlestar Galactica – Season 3 (2007)
Con circa 80 minuti di musica, La-La Land è andata al limite della capienza di un compact disc, anche se si tratta pur sempre di una piccola parte dello score che ammonta intorno alle 24 ore complessive. Ambientazioni sospese, soundscape spettacolari di sapore celtico e cinese, frammenti di epica militaresca (“Admiral and Commander”) e bizzarri sincretismi etnica/heavy metal (“Heeding the Call”, “All Along the Watchtower”, quest’ultima cover del famoso brano di Bob Dylan) sono le carte vincenti di questo terzo atto che ha impegnato non poco McCreary, sia nella veste di direttore d’orchestra, sia come interprete al piano solo del brano intitolato “Battlestar Sonatica”. Il cuore dell’album è una lunga composizione (“Violence and Variations”) per orchestra di archi (circa 20 elementi) che riprende le idee di “Passacaglia” (Stagione 1) e “Allegro” (Stagione 2). Il tema iterativo – una spirale di note ritornanti che danno un senso di paranoia – sembra essere una sorta di ossessione musicale per McCreary, che stavolta ha aggiunto al canovaccio iniziale dei passaggi per violino aulici e indubbiamente molto belli, anche se lo scopo di questo movimento è soprattutto quello di “raffreddare” l’ascolto. Interessantissime invenzioni sia armoniche sia timbriche si registrano nei titoli “Someone to Trust”, “The Temple of Five”, “Deathbed and Maelstrom”. “Someone to Trust”, che ripropone in maniera alterata e più calda il tema di Baltar, è un momento di musica toccante e intimista, affidata al canto dell’erhu (antico strumento cinese simile a un violino). “The Temple of Five” fa uso del più ampio e spettacolare spettro di sonorità esotiche: campane, chime, guzheng (inconfondibile cetra cinese), duduk e tamburi yialli creano un tappeto sonoro nel quale la linea melodica di “Laura Roslin’s theme” appare solo accennata e comunque del tutto secondaria rispetto a un’ambientazione acustica così rutilante. Infine “Someone to Trust” è l’apice e in un certo senso lo stato di equilibrio tra le sperimentazioni timbriche e le melodie romantiche, con il suo sincretismo di erhu, sussurri in latino e piena orchestra. Questo brano, che rimastica il famigerato “Baltar’s Theme” di quattro note spiccanti, ha impegnato severamente McCreary in tutte le fasi della produzione e realizzazione per l’indubbia complessità dell’idea, ma con un risultato senza dubbio appagante.
Bear McCreary: Battlestar Galactica – Season 4 (2009)
Album doppio con oltre due ore di musica che celebrano il gran finale della fiction, a tratti trionfalistico ma anche intimo, “cosmico” anche dal punto di vista musicale, contaminato e stilisticamente poliglotta. Cifra distintiva di quest’ultimo capitolo è l’evoluzione dei contributi per orchestra, che rispetto al primo volume hanno praticamente rimpiazzato le pregevoli atmosfere tastieristiche e dimostrato la stoffa dell’emergente compositore statunitense nel realizzare atmosfere thriller con organici orchestrali. Il brano “Assault on the Colony” presente nel secondo disco (che raccoglie tutta la musica dell’episodio conclusivo Daybreak) è l’emblema dell’escalation artistica di McCreary, sia per la sua estesa durata (oltre 15 minuti di pura adrenalina, di sottili armonie, di crescendo tambureggianti, di sfondi sonori inquietanti), sia per la maturità nel trattamento di elementi diversi che formano un tutto omogeneo. In questo ed in brani come “Among the Ruins” e “Resurrection Hub” assistiamo ad una manipolazione delle tonalità davvero personale e caratteristica, con continue modulazioni che non annoiano mai né danno un’impressione di eccessiva aulicità. Il cuore di tutto l’ascolto, per il pathos e la ricchezza tematica lo regala “Diaspora Oratorio” (per orchestra e coro, un allestimento decisamente inusuale nelle precedenti stagioni), che assomiglia alle sognanti partiture del Signore degli Anelli e che regala, con sobrietà di stile, delle armonie e delle vette liriche magnificenti. A coronamento di un approccio che ha concesso qualcosa all’epica citiamo anche “The Heart of the Sun”, con una variazione del tema coniato nella prima stagione (“A Good Lighter”) e la ripresa dello storico leitmotiv del 1978 di Phillips-Larson. Tutti i brani fin qui citati rendono questo album decisamente caratterizzato e fruibile da un pubblico molto vasto, non necessariamente legato alla serie televisiva. Non mancano ovviamente gli ingredienti “di nicchia” che hanno marchiato così a fondo le OST precedenti: sincretismi esotici (“Blood on the Scales”) e brani rock psichedelici (“Gaeta’s Lament”). Un’ulteriore nota di merito spetta al pianoforte avant-jazz di McCreary (incredibilmente classico nel titolare i suoi brani “Elegy” e “Dreilide Thrace Sonata No. 1”).
Bear McCreary: The Plan / Razor (2010)
Battlestar Galactica è stato indicato per le strategie di marketing a tutto campo (anche sul web con miniserie apposite tra una stagione e l’altra) e i due film televisivi (Razor del 2007 e The Plan del 2009) ne sono l’ulteriore dimostrazione. Per la compilazione del CD è stato scelto un percorso misto tra i due episodi, con ottimi risultati per l’ascolto che, similmente alla prima stagione, oscilla tra minimalismo e percussioni assortite. McCreary riprende i brevi temi consolidati della saga, in particolare “Main Title (UK Version)” di Richard Gibbs, presente in due rivisitazioni heavy metal con la voce di Raya Yarbrough: “Apocalypse (Theme from “The Plan”)” e la bonus live version della stessa, eseguita dalla Battlestar Galactica Orchestra. Predominano nel complesso le ambientazioni tastieristiche sostenute dal canto di strumenti folkloristici come l’erhu (“Pegasus Aftermath”) e il duduk (“Kendra’s Memories”), due protagonisti assoluti che hanno dato un colore ineguagliabile a questa e a tutte le altre partiture. È il caso di sottolineare ancora una volta l’inusuale tavolozza timbrica di McCreary, dagli effetti emotivi spiazzanti per uno sci-fi a sfondo drammatico. Temp track e cliché di genere sono stati sbattuti fuori – nei limiti del possibile – da Battlestar Galactica, e questo ha prodotto degli effetti interessantissimi sulle immagini, ampliando a dismisura le frontiere musicali della OST. A dimostrazione che qualcosa si muove nell’Ottava Arte (a volte nei modi più impensabili, complici limitazioni di budget, nuovi linguaggi, multimedialità, strategie di marketing estreme e, ovviamente, quella “follia” creativa che è il sale di tutto…).
Antonio Marguccio
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