12 Lug 2012
Quasi quindici anni fa iniziava sulla HBO Sex and the City, serie diventata poi di culto per una precisa fetta di pubblico e detestata dal resto dell’umanità. Allora erano le storie di quattro donne oltre i 30 che vivevano una vita da single a New York, cacciando ogni maschio disponibile o aspettando la venuta dell’uomo perfetto. Nel 2012, la società e la televisione sono cambiate, se non semplicemente esasperate, ed è così che a riproporci storie simili ma adeguate al contesto arriva la ventiseienne Lena Dunham, che con la benedizione di Judd Apatow realizza Girls. È davvero il ritratto di una generazione?
Superfluo fare un riassunto delle diverse trame in cui si muovono le quattro protagoniste: quello che questa serie offre è uno sghembo insieme di accenni a problemi d’attualità e altalenanti relazioni sentimentali monogame, promiscue o inesistenti. I profili di queste precarie ricordano, seppure alla lontana, quelli messi sul piatto da Sex and the City: l’aspirante scrittrice piena di dubbi, l’amica del cuore intrappolata in una relazione stabile ma noiosa, la timida all’inverosimile e quella che passa da un uomo all’altro senza fermarsi. Quello che allontana almeno in parte questa serie da quella di Darren Star è una veste che si rifà a una certa estetica indipendente statunitense anziché al glamour a tutti i costi e una maggiore spinta sugli aspetti più prettamente comici dei personaggi. L’umorismo di Lena Dunham (autrice o co-autrice di tutti gli episodi, regista e principale interprete) riesce spesso ad arrivare dove vuole: colpire con sarcasmo le manie più negative o comunque discutibili di quelli che oggi hanno tra i venti e i trent’anni senza ricorrere troppo spesso alla battuta facile.
L’intento viene esplicitato proprio dal personaggio dell’autrice nel primo episodio: “Essere una voce di una generazione”. Peccato che questa voce si vada via via perdendo nel corso di appena dieci episodi. I primi appuntamenti presentano infatti un equilibrio sufficiente tra la parte di denuncia di una condizione sociale e gli intrecci sentimentali, e un senso del grottesco senza consolazione che in seguito viene a mancare. Apice di questo scivolare in meccanismi fin troppo facili rispetto all’inizio è proprio il deludente finale di stagione, costruito sull’amore per i (fiacchi) colpi di scena e un’attenzione rivolta agli aspetti meno interessanti e distintivi della serie.
Così come la generazione che ritrae non può essere etichettata solo come depressa o svogliata, Girls non è affatto un prodotto sgradevole o noioso in assoluto, ma mostrare il fiato corto prima della fine di solo una stagione non è un buon segno. La speranza è che, sulla base dei tanti apprezzamenti ma anche delle critiche ricevute, Lena Dunham e i suoi collaboratori sappiano realizzare una seconda stagione con meno incidenti di percorso (a partire ad esempio da una migliore distribuzione dello screen time tra le protagoniste) e una rotta più vicina agli intenti iniziali della serie. Intenti per cui sì, un’intera generazione alla ricerca di un ritratto fa il tifo.
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