28 Gen 2011
Questo primo mese del 2011 ha visto il lancio di DC Universe Online e il passaggio all’iscrizione gratuita di Champions Online, due videogiochi di massa in cui i giocatori possono creare (quasi) liberamente il supereroe che vogliono interpretare, il primo basato sull’universo di Superman e Batman e il secondo ispirato ai giochi di ruolo dell’Hero System. Sempre questo mese, però, ha debuttato sulla NBC The Cape, che racconta proprio le gesta di un supereroe nella fittizia città di Palm City. E ha debuttato tutt’altro che male, con quasi 9 milioni di telespettatori per il doppio episodio che ha aperto la serie.
È chiara l’idea della rete di recuperare quegli stessi spettatori che avevano amato (almeno inizialmente) Heroes, tanto da riproporre persino il fumetto da leggere on-line, ma la stupidità di dialoghi e situazioni sembrano spesso ricordare più il Batman con Adam West che non la bella serie ideata da Tim Kring. E se è chiaro che gli autori hanno voluto giocare la carta dell’ironia, è altrettanto chiaro che le loro intenzioni non erano quelle di fare una parodia del genere come invece hanno fatto. A partire da personaggi rozzi quanto quelli di un film di Uwe Boll (protagonista compreso) e passando attraverso la totale mancanza di sottotrame, l’impressione è che il creatore Tom Wheeler e il suo gruppo di sceneggiatori non siano in grado di costruire una vera e propria saga, ma solo di navigare a vista con poche idee e un labile concetto di base.
Può essere intrigante, l’idea del mantello prensile che diventa la parte principale del costume dell’eroe (scandalosamente uguale a quello del protagonista del videogioco Thief), ma gli autori non riescono a costruirci attorno neanche un pilot veramente efficace. Colpa, questa, anche della decisione della NBC di far esordire la serie con due episodi da un’ora invece che con un pilot di due, negando così a Wheeler e soci la possibilità di sviluppare compiutamente l’addestramento del protagonista (banalissimo, ma forse proprio per questo efficace rispetto al resto) e la creazione del suo alter ego. Probabilmente questo formato facilita la riprogrammazione della serie e la sua vendita all’estero, ma considerando l’inconsistenza di tutto il resto è facile pensare che servirà a poco, visto anche il rapido e costante calo di ascolti delle puntate successive. Non bastassero poi antagonisti ridicoli, stereotipi a pacchi e dialoghi terribili, l’incapacità degli autori è evidente anche dal modo grezzo in cui viene gestita la collaborazione tra il protagonista e Orwell. E rozzo è pure il modo in cui viene trascinato di puntata in puntata un “incredibile” segreto assolutamente ovvio sin dal loro primo dialogo.
La cosa clamorosa, però, è che le già risibili sceneggiature sono persino peggiorate dal modo in cui vengono messe in scena. Non solo tutti gli attori protagonisti sono privi di carisma (compresa Summer Glau, cui si sta cercando di ritagliare più spazio man mano che si va avanti), ma i registi dirigono in maniera caciarona quando non tamarra (terribili le scene d’azione) e gli episodi vengono montati con grande disprezzo verso l’intelligenza e l’attenzione dello spettatore, manco si trattasse di una soap nostrana. Sugli effetti speciali bisogna stendere il classico velo pietoso, come sempre accade in televisione, ma val la pena segnalare il bel tema musicale di Bear McReady, perfettamente adatto a una serie supereroica.
Il protagonista di The Cape, nella finzione, prende il nome e il look del personaggio a fumetti preferito da suo figlio (personaggio che nessun altro sembra conoscere, e di cui il figlio legge con insistenza sempre le stesse quattro pagine, ma lasciamo perdere…), e non c’è dubbio che l’influsso fumettistico si senta, nelle sceneggiature. Certo però che se Tom Wheeler cita Alan Moore, il Green Arrow di Mike Greel e il Devil di Frank Miller tra i suoi fumetti preferiti, poi vien da chiedersi se da ragazzo leggesse anche i balloon o guardasse solo le figure…
The Cape poteva anche essere una buona serie tv, se solo non avessero condensato la prima stagione nel pilot.
Avrebbe potuto essere una buona serie se l’avessero data in mano a degli sceneggiatori capaci e con delle idee in testa. Già l’idea di fare una serie così ironica mi lascia perplesso – considerando anche che i fumetti di supereroi si stanno facendo ancora più adulti che negli anni scorsi – ma poi per riuscirci senza svaccare ci vuole esperienza e talento, e non mi pare proprio che Wheeler e soci ce li abbiano.
Quello degli sceneggiatori incapaci mi pare un problema molto diffuso tra le tv generaliste: nessuno che prova mai a fare qualcosa di diverso. Non a caso abbiamo almeno tre nuovi Lost, ma la verità è che non vogliamo nuovi Lost, vogliamo cose nuove e basta. Che poi le novità non vengano apprezzate dal pubblico americano è un altro punto dolente, basta vedere il trattamento riservato a Firefly e a Dollhouse. Non a caso Whedon è passato al cinema.
Questa, in realtà, è una questione vecchia: manca l’originalità perché gli sceneggiatori non hanno idee o perché i produttori non si fidano a investire sulle nuove idee? Che gli sceneggiatori bravi siano pochi mi sembra ovvio, ma mi sembra altrettanto ovvio che i produttori cerchino sempre di rischiare il meno possibile, come dimostra il caso dei tanti “nuovi Lost”: una cosa va bene, tutti dietro a cercare di replicarne il successo. Al cinema succede da sempre, e ancora non hanno capito che sbagliano.
Per Whedon il discorso è diverso: non è che il pubblico non vuole cose nuove, il pubblico non è interessato alla fantascienza. Tolte le serie che avevano un “marchio” (Star Trek, Stargate, Galactica), tutte le serie moderne di fantascienza sono andate male, con l’aggravante che le serie spaziali costano un botto. E non succede solo in tv, ma anche al cinema e in libreria. Però va detto che anche al cinema Whedon è sempre andato male, finora, quindi forse è anche proprio il suo stile a essere indigesto.
Serenity mi pareva fosse stato nominato addirittura come miglior film di fantascienza degli anni duemila. Ovvio che era un’esagerazione, ma qualche riconoscimento lo ha avuto. Vedremo con The Avengers.
E secondo me, le colpe sono da dividere tra ambo le parti, per quanto riguarda le cattive idee: i produttori, colpevoli di pressare gli autori (vedi Whedon) o di ignorare altri (tipo Darabont, anche se con The Walking Dead si poteva fare molto meglio), salvo poi accettare idee trite e ritrite; gli scrittori, perchè si fanno venire in mente boiate come The Cape, The Event, Flashforward…
PS: Era ora che aprivate un sito di critica televisiva, quelli on-line apprezzano allo stesso modo Boardwalk Empire e The Vampire Diaries! Almeno ho un punto di riferimento in più, oltre a cinefile!
Ci pensavo da un po’, a un sito sulla tv, ma mi riusciva difficile pensare a un formato che mi convincesse, e poi avevo bisogno della disponibilità degli altri a scriver di televisione. muntari è un po’ un rischio, proprio perché esce dai canoni dei siti italiani dedicati alla tv, ma farlo in questo modo mi interessava, farlo come lo fanno gli altri no.
Comunque, “Serenity” al box office è andato male (40 milioni di dollari di budget, 38 di incasso mondiale). Poi è chiaro che nel genere riceva dei premi, anche perché di fantascienza pura nel XXI secolo non ne abbiamo vista molta, di una certa qualità. Comunque Whedon ha sceneggiato anche “Capitan America” oltre ai “Vendicatori”, per cui direi che tra poco avrà anche lui il suo primo successo cinematografico. Purtroppo, checché ne dicano altri critici, il passaggio dalla tv al cinema è durissimo per gli autori come per gli attori. Non a caso JJ Abrams, da persona intelligente, è partito dirigendo film appartenenti a scuderie di successo, perché sapeva benissimo che i suoi spettatori non sarebbero stati sufficienti a fare dei suoi film un successo, e non aveva neanche la certezza di riuscire a portarseli dietro in massa. Adesso che è un nome anche al cinema, può permettersi progetti più personali.
Tra l’altro, il romanzo di “Flashforward” è molto belllo. In tv è stato completamente rovinato, non solo perché ci sono gli agenti dell’FBI di Los Angeles al posto degli scienziati del CERN di Ginevra, ma soprattutto perché nel libro il blackout porta avanti di 21 anni, non di pochi mesi, con conseguenze psicologiche e parascientifiche diversissime e molto più interessanti.